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Alla Fondazione Memmo di Roma torna “Conversation Piece”. Intervista al curatore Marcello Smarrelli

"Conversation Piece | Part IV - Giant steps are what you take"  è il titolo della quarta tappa del ciclo di mostre in cui artisti italiani e stranieri, temporaneamente presenti nella capitale, sono invitati a riflettere e dialogare su un particolare tema ROMA - ArteMagazine ha posto al curatore Marcello Smarrelli alcune domande per cercare di approfondire questo progetto dalla forte connotazione sperimentale che continua a destare interesse e curiosità, testimoniando anche il forte legame che viene a crearsi tra gli artisti e la città.  La Fondazione Memmo è una Istituzione molto attiva e attenta alla scena artistica contemporanea capitolina, come è nata la vostra collaborazione? MS: Tra il 2005 e il 2006 realizzai una decina di appuntamenti di un progetto che avevo chiamato Studio Visit. Invitavo un piccolo e selezionato gruppo di collezionisti, critici, giornalisti e pubblico particolarmente interessato, a visitare gli studi degli artisti residenti a Roma.  L'idea nasceva da un aspetto unico della scena culturale romana: la presenza delle accademie straniere e degli istituti di cultura dei diversi paesi, dove da qualche secolo completano la loro formazione nuove generazioni di artisti provenienti da tutto il mondo. Non sono solo le accademie a garantire la presenza di artisti contemporanei a Roma, molti di loro decidono di trascorrere nella capitale periodi più o meno lunghi: fu eclatante il caso di Twombly, Kounellis, Prini, ma anche quelli di Kosuth, Cucchi, Ontani, e altri ancora. Insomma, Roma, come nei secoli passati, è ancora un potente attrattore e continua a esercitare il suo fascino sugli artisti di tutte le generazioni e di tutte l’età.  Partendo da questa situazione così connotante e atipica, abbiamo pensato di sviluppare con Anna d'Amelio e Fabiana Marenghi Vaselli - direttrici della Fondazione Memmo - un programma di mostre che portasse di volta in volta artisti temporaneamente presenti a Roma a presentare il proprio lavoro negli spazi delle Scuderie di Palazzo Ruspoli, sede della Fondazione.  Il ciclo "Conversation Piece" giunge al quarto appuntamento. Può raccontare come ha ideato questo progetto? In base a quali criteri sono state individuate le tematiche in questi anni e qual è il filo rosso che lega i quattro appuntamenti? MS: Il titolo si ispira a un particolare genere di pittura in voga fra il XVII e XVIII secolo, che rappresentava gruppi di persone che conversano tra loro o compiono azioni e gesti quotidiani in contesti di vita familiare. La mostra, infatti, vuole porsi come un momento di confronto e di discussione tra linguaggi molto diversi, a volte anche distanti tra loro.   L'invito rivolto agli artisti è quello di condividere uno spazio nel cuore della città, all'interno di Palazzo Ruspoli, testimonianza tra le più significative del tardo rinascimento a Roma. Un luogo particolarmente connotato dalla storia, ma anche dalla vita quotidiana che da molti secoli continua a scorrere con il succedersi delle generazioni, dove gli artisti hanno modo di riflettere sulle modalità attraverso le quali costruire una mostra collettiva, cercando insieme un possibile fil rouge che permetta a ogni opera di relazionarsi e “conversare” con le altre. Nella scelta del titolo vive anche una certa suggestione cinematografica, legata a uno dei film più famosi di Luchino Visconti, Gruppo di Famiglia in un interno (Conversation Piece), 1974, in cui si narrano le vicende di un professore di scienze che vive in un antico palazzo romano circondato dalla sua collezione di Conversation Piece, appunto, la cui vita intima viene completamente stravolta dall'arrivo di giovani e irrequieti inquilini al piano superiore. Una chiara metafora del confronto generazionale, ricco di possibilità, ma anche di complicazioni, resistenze e reciproche incomprensioni.  Naturalmente non individuiamo solo artisti in residenza nelle varie accademie, ma cerchiamo di captare ogni tipo di presenza attiva sul territorio o con un legame con esso. I temi sono ogni anno diversi e nascono dall'osservazione del lavoro degli autori: diciamo che il criterio è quello di trovare degli aspetti comuni negli approcci e nelle poetiche degli artisti invitati, senza tuttavia vincolarli troppo. Il tema è infatti sufficientemente "aperto" da poter permettere la coesistenza di pratiche anche agli antipodi. Se c'è un filo rosso, direi che possa essere rintracciato nella volontà di concepire la mostra come un dialogo a più voci, un momento di incontro tra gli artisti stessi, ma anche con la città di Roma, la sua storia, i suoi luoghi e persino il suo tessuto produttivo artigianale, visto che molte opere vengono realizzate coinvolgendo artigiani che sono continuatori di tradizioni manuali e di un "saper fare" che connota da sempre questa città. Il sottotitolo della mostra di quest’anno è “Giant steps are what you take”, che è un verso della celebre canzone dei Police, "Walking on the moon”. Il tema è quindi legato all’atto del camminare inteso come avanzamento, progressione, esplorazione. Un concetto alla base di ogni ricerca artistica. Uno spunto che può svilupparsi in diverse direzioni lasciando ampio spazio all’artista. Come ha scelto gli artisti in mostra? Le opere sono state concepite e realizzate appositamente per questa occasione? MS: Il tema dei “passi” è stato declinato in maniera assolutamente personale da ogni artista: i lavori di Yto Barrada (Parigi, Francia, 1971) si presentano come maquette, fase intermedia di un percorso di produzione di opere che saranno presentate in una prossima mostra personale dell'artista al Barbican di Londra; il video di Eric Baudelaire (Salt Lake City, Stati Uniti, 1973) è frutto di vere e proprie promenade nei centri delle città europee, di cui sottolinea l’inedita presenza – estraniante e invadente – delle forze armate in assetto antisommossa; la scultura di Rossella Biscotti (Molfetta, 1978) riproduce i dodici passi che l’artista ha compiuto per molti mesi come esercizio fisioterapeutico, chiamando così in causa un elemento autobiografico; Jörg Herold (Lipsia, Germania, 1965) propone un intervento ambientale che, partendo dai 99 nomi attribuiti ad Allah e altre immagini con un forte senso del sacro, evoca un cammino iniziatico, un percorso ascensionale e spirituale; l’installazione di Christoph Keller (Berlino, Germania) riflette sottilmente sulla natura del momento che precede l’atto della creazione – il nulla – attraverso la presenza discreta eppure incisiva di un neon che sembra non emettere luce; Jakub Woynarowski (Cracovia, Polonia, 1982) compone infine sulle finestre di Palazzo Ruspoli che si affacciano su via del Corso un atlante di segni e simboli ricorrenti nelle diverse epoche, delineando così un percorso storico artistico fatto di corrispondenze inattese e misteriose che mettono in discussione le periodizzazioni cui siamo abituati e il ruolo dirompente delle avanguardie. La scelta degli artisti è il frutto di un intenso e appassionato lavoro di studio e di scambio svolto all’interno del team della Fondazione Memmo. Come ogni anno abbiamo visionato il lavoro dei numerosi artisti presenti a Roma, cercando di trovare un equilibrio tra poetiche e pratiche che, per quanto diverse tra loro, fossero contraddistinte dal rigore e dall'originalità della ricerca artistica, con l'idea che questa eterogeneità possa creare un ritmo e accostamenti sorprendenti. Tutte le opere sono state realizzate appositamente per la mostra o riadattate per gli spazi espositivi della Fondazione Memmo – configurandosi così di fatto come lavori inediti. Il concetto di “conversazione” è molto interessante proprio perché suggerisce un’occasione di dialogo, di confronto dialettico, di apertura, ma anche di possibile scontro. In questo caso ci troviamo di fronte a un momento di “discussione” tra personalità artistiche molto differenti tra loro. Qual è il processo curatoriale che lei ha sviluppato per concertare le ricerche e le metodologie dei diversi artisti coinvolti?  MS: È una mostra che evidentemente presenta molti rischi, con una forte componente sperimentale. Nel concepire un progetto di questo tipo bisogna essere permeabili, non dogmatici, pronti ad accogliere linguaggi e personalità diverse, a volte anche non coincidenti con la propria ricerca curatoriale. È una mostra che si pone come un piccolo dono reso alla comunità artistica per permettere alla città di conoscere ed entrare in contatto con artisti che vivono qui per un certo periodo. Alcuni di loro poi decidono di fermarsi di più a Roma, entrano in contatto con gallerie e istituzioni, con i collezionisti, insomma è un progetto che potremmo considerare di “servizio”.  Credo che tutto ciò rappresenti un punto di forza e sia alla base dell'alchimia in grado di far vibrare la mostra e lo spazio che accoglie le opere. Il processo che sta alla base di Conversation Piece, più che su una visione rigorosa del concept individuato, si basa sulle possibilità inaspettate che si possono generare una volta che gli artisti si trovino a condividere uno stesso tema su cui riflettere, senza troppe forzature o griglie. Mi piace che il tema possa essere affrontato attraverso modalità differenti, che possa essere declinato secondo un principio che consideri le divergenze tra gli autori e non solo le affinità. Credo, in definitiva, che sia questo il senso di una conversazione: la convergenza in uno stesso luogo di punti di vista differenti. “Conversation Piece” è un progetto che proseguirà? MS: Considerato il successo e il gradimento crescente che riscuote Conversation Piece e il fatto che la mostra sia diventata una consuetudine annuale attesa con interesse e curiosità, spero proprio di sì. Direttore artistico della Fondazione Ermanno Casoli e della Fondazione Pastificio Cerere, Visiting Curator alla Fondazione Memmo, Consulente alla Cultura del Comune di Pesaro e Art Advisor per la Fondazione Centro Arti Visive Pescheria, come cambia l’approccio e lo sviluppo del suo lavoro direttivo e curatoriale nelle diverse realtà con cui collabora?  MS: Credo fermamente che la cultura sia un diritto universale in quanto strumento indispensabile per migliorare la qualità della vita personale e sociale. Per quanto riguarda l’aspetto teorico legato al mio ruolo di curatore,  in tutti i contesti in cui mi trovo ad agire, mi rivolgo sempre a quegli artisti a cui riconosco una particolare sensibilità verso obiettivi per me essenziali: la capacità di inserirsi e dialogare con lo spazio, soprattutto quello pubblico, di contaminare codici differenti, una spiccata attitudine progettuale, il desiderio di scardinare convenzioni e comportamenti acquisiti, una concezione dell’arte come modello etico e di sviluppo dei contesti sociali, l’abilità nel coinvolgere attivamente lo spettatore. Il mio artista ideale deve avere come riferimento la realtà contemporanea e gli scenari futuri, e come soggetto, oltre alle istituzioni, le aree urbane ed extraurbane sensibili, le organizzazioni, le aziende, i luoghi della formazione, spesso caratterizzati da tensioni legate all’identità, all’abitare, alla comunità, all’integrazione, allo sviluppo sostenibile. Attraverso la realizzazione di un’opera d’arte l’artista deve generare emozioni e riflessioni,  ma anche prefigurare nuove situazioni e trasformazioni, ridisegnare spazi e modelli di vita, preoccuparsi della qualità dell’ambiente e della convivenza sociale, avendo come interlocutori da una parte enti e amministrazioni pubbliche interessate a reali strategie di sviluppo territoriali, e dall’altra le attività pubbliche e private con la loro struttura e il loro funzionamento strettamente legato alle regole della produzione. Cerco di trasformare le istituzioni pubbliche e private per cui lavoro, in un elemento che faccia da ponte tra l’artista e queste realtà così diverse e complesse, impegnandomi a creare le condizioni affinché i progetti possano essere realizzati e inseriti all’interno di programmazioni e contesti seriamente interessati ad attivare i processi indicati. {igallery id=7669|cid=814|pid=1|type=category|children=0|addlinks=0|tags=|limit=0} {igallery id=2562|cid=815|pid=1|type=category|children=0|addlinks=0|tags=|limit=0} Vademecum Conversation Piece | Part IVCuratore: Marcello SmarrelliAssistente curatore: Saverio VeriniFondazione Memmo, via Fontanella Borghese 56/b, 00186 RomaApertura al pubblico: 17 dicembre 2017 – 18 marzo 2018Orario: tutti i giorni dalle 11.00 alle 18.00 (martedì chiuso)Ingresso liberoInformazioni: Benedetta Rivelli: +39 06 68136598 artecontemporanea@fondazionememmo.it www.fondazionememmo.it LABORATORI DIDATTICI (4-11 anni):domenica 4 febbraio e domenica 18 marzo 2018solo su prenotazione scrivendo a Daphne Ilari (daphne.ilari@gmail.com)Il ricavato sarà interamente devoluto a Fondazione Theodora Onlus ...

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