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Nel fiume di Bangkok la spazzatura della civiltà

Roma. La fotografia come replica della realtà è una prospettiva che gli va stretta fin dagli esordi, «Quando ho iniziato il mio lavoro, sentivo che sarei stato sempre dipendente dal mondo materiale. Sembrava più interessante essere un pittore nel proprio studio, libero di decidere cosa fare, come sviluppare la composizione. Non sono un pittore, ma ora ho la stessa libertà». Tutta l’opera fotografica di Andreas Gursky (nato a Lipsia nel 1955) è in dialogo con la pittura, la postproduzione cui sottopone le immagini fa eco alla pratica pittorica, ai suoi tempi lunghi, alle sovrapposizioni e variazioni. Allievo dei Becher all’Accademia di Düsseldorf, e oggi uno dei nomi più rilevanti dell’arte contemporanea, da sempre l’autore tedesco è concentrato nella composizione di una sorta di «enciclopedia della vita» dove, attraverso le sue opere monumentali, osserva la relazione dell’uomo con l’ambiente, che questo lo porti dai luoghi del lavoro a quelli dello sport, dai musei alle Borse internazionali, dai siti archeologici agli uffici, dai paesaggio agli assembramenti dei rave party.Per celebrare i dieci anni dall’apertura della sua sede capitolina, la galleria Gagosian gli dedica «Andreas Gursky. Bangkok», personale dove fino al 3 marzo è esposta un’ampia selezione dalla serie realizzata nella capitale della Thailandia, e la grandiosa «Ocean VI», che appartiene al progetto «Oceans», tutte opere presentate per la prima volta in Italia.Nella primavera del 2011 riprende il Chao Phraya, il fiume che attraversa Bangkok per poi sfociare nel Golfo del Siam, traducendo il suo corso in composizioni verticali quasi astratte. La superficie dell’acqua in movimento gioca con la luce dando vita a uno spettacolo a prima vista seducente, ma che poi scopre la realtà di una «spazzatura della civilizzazione» che galleggia sui riflessi dei colori, e che ci ricorda l’urgenza della crisi ecologica.Per «Oceans» Gursky ricorre alle immagini satellitari in alta definizione, rielaborate anche in base allo studio delle mappe dei fondali, per darci la sua visione delle terre che emergono dalla profondità oceanica. In «Ocean VI», del 2010, la linea quasi grafica delle coste, con le isole caraibiche e parte dei litorali di Nord e Sud America, è un confine sottile che fatica a contenere la distesa immensa di un Atlantico in continua crescita, dove è chiaro ancora una volta il richiamo alla minaccia del disastro ambientale.Link:www.gagosian.com ...

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