Keith Haring e Paolo Buggiani a Firenze. La vera origine della Street Art. Intervista a Paolo Buggiani
Sono le sale di Palazzo Medici Riccardi di Firenze ad accogliere, dal 26 ottobre al 4 febbraio 2018, “MADE IN NEW YORK. KEITH HARING, (Subway drawings) Paolo Buggiani and co. La vera origine della Street Art”, la mostra a cura di Gianluca Marziani, prodotta e organizzata da MetaMorfosi FIRENZE - Keith Haring e Paolo Buggiani sbarcano insieme a Firenze, protagonisti di una grande esposizione che ha lo scopo non solo di analizzare le origini di un movimento spontaneo che, da oltre quarant’anni, anima pareti, strade, edifici e ogni superficie, ma anche di chiarire e tracciare una linea di demarcazione tra la cultura del Graffitismo e la dimensione più ampia della Street Art. Lo sfondo da cui prende il via l'esposizione è quello di una New York fine anni Settanta inizi anni Ottanta, in pieno fermento creativo, crogiolo di moti generazionali come graffitismo, rap, skateboarding e break dance. E’ nella Grande Mela che Buggiani, toscano classe 1933, inizia ad usare la metropoli come un museo a cielo aperto, trovando terreno fertile per le sue "incursioni", ed è qui che conosce Keith Haring, il ragazzino geniale che presto sarebbe diventato una leggenda dell’arte contemporanea. Ed è proprio Buggiani che, intuendone la potenza creativa e soprattutto il potenziale futuro, quasi da collezionista ante litteram, stacca dai muri, salvandole, una cinquantina di Subway drawings, ovvero le prime opere di Haring, realizzate in gessetto sulle affissioni nere che coprivano le pubblicità scadute. Haring all'epoca agiva rapidamente e contro il volere delle guardie o sotto gli occhi dei passanti, scivolando via un attimo dopo l’esecuzione. Motivi semplici ma iconici quelli rappresentati dal giovane artista, che in brevissimo tempo però sarebbero diventati il prologo di una rivoluzione creativa globale. Insomma tutto è davvero partito nei sotterranei di New York, dal sottosuolo verso l'olimpo dei musei e delle grandi gallerie. Dal canto suo Buggiani nella Grande Mela, accendeva l’antagonismo urbano tramite performance plateali ad alto contenuto “politico”. Buggiani creava scalpore e bellezza spontanea allo stesso tempo, rompendo le dinamiche della quotidianità con la “straordinarietà” delle sue azioni, diffondendo un messaggio diretto, di libertà, di ribellione, ma anche di pace, inducendo quindi anche a una riflessone. La mostra fiorentina presenta oltre 20 opere originali di Haring, salvate dalla distruzione e conservate da Paolo Buggiani. A riprova inoltre della loro amicizia, è presente un prezioso disegno di Haring che ci mostra un uomo con le ali e una dedica: FOR PAOLO. Da quel momento, il personaggio volante di Buggiani sarebbe diventato uno dei soggetti pittorici del genio di Kutztown. Sempre di Haring si vedranno due opere su tavola del 1983. Un’ampia sezione della mostra racconta l’arte di Paolo Buggiani, con decine di fotografie che documentano le sue performance e le sue installazioni a New York; alcune immagini sono state ritoccate in modo originale, così da trasformare la foto di un’azione nell’icona pittorica di un sogno realizzato. Completano il progetto i lavori di alcuni compagni di strada (Richard Hambleton, Ken Hiratsuka, Jenny Holzer, Barbara Kruger, Les Levine, David Salle), oltre ad una pregiata selezione di poster originali, fotografie e documenti video che ampliano i contenuti e le testimonianze di una storia bellissima. In esposizione anche un cospicuo nucleo di sculture dei suoi rettili in lamiera leggera, una sorta di bestiario tecnoprimitivo dislocato negli spazi storici di Palazzo Medici Riccardi. Si aggiungono poi due sculture di grande potenza scenica: la barca e l’automobile, entrambe in lamiera ritagliata e modellata, due capolavori che sembrano scendere direattamente da Mad Max per parcheggiare nel cuore del Rinascimento fiorentino. Infine anche il Minotauro e Icaro, due corpi mitologici che hanno attraversato New York e altre città del mondo, giungono oggi dentro il museo, nel luogo che certifica il valore storico di un’idea vincente. Ma non è tutto. Nel mese di dicembre (data ancora da stabilire) verrà presentato un volume che documenterà il progetto nella sua interezza. Nella stessa data sarà organizzata anche una giornata di studi che coinvolgerà artisti, storici dell’arte, galleristi, collezionisti e altri operatori del settore, con lo scopo di chiarire alcuni nodi storici e codificare le conseguenze germinative di un linguaggio divenuto globale. La mostra è patrocinata da Città Metropolitana dI Firenze con il contributo della Regione Toscana. Foto inaugurazione {igallery id=9243|cid=739|pid=1|type=category|children=0|addlinks=0|tags=|limit=0} Foto dell'allestimento {igallery id=2879|cid=736|pid=1|type=category|children=0|addlinks=0|tags=|limit=0} Alcune opere {igallery id=7219|cid=738|pid=1|type=category|children=0|addlinks=0|tags=|limit=0} Paolo Buggiani. L'intervista In occasione della mostra fiorentina, abbiamo avuto modo di parlare con Paolo Buggiani, con l’intenzione di approfondire alcuni aspetti della sua evoluzione artistica e di comprendere la portata rivoluzionaria della Street Art, con le sue implicazioni politiche, sociali e culturali, che vanno ben oltre rispetto al fenomeno del Graffitismo. Partiamo dunque da New York, dove tutto è cominciato e che per lei è stato il “campo d’azione, di “battaglia”, dove scelse un approccio, se vogliamo, più “effimero” rispetto agli inizi della sua carriera, quando il suo fare artistico rientrava ancora in canoni e modalità più convenzionali Fino a che non sono arrivato a New York non ho cambiato il mio modo di pensare. - Spiega Buggianii, che ci racconta che, tuttavia questo cambiamento è stato preceduto da un’esperienza parigina -. Negli anni Cinquanta ero a Roma presso la galleria Schneider da diversi anni, ed ero tra i più giovani pittori, “accettato” da quelli che avevano 20anni più di me, come Turcato,Consagra… Agli inizi degli anni Sessanta avevo preso uno studio a Parigi e presentavo una mostra alla Galleria di Wilfredo Lam, che aveva visto e apprezzato i miei quadri. Proprio a Parigi è cominciato il mio cambiamento. Andai infatti a vedere una mostra di Yves Klein alla Galerie Iris Clert. Quell’esposizione rappresentò una rottura rispetto alla mia concezione più convenzionale di arte. La galleria era tutta dipinta di blu, la mostra era quindi la galleria stessa. Io non avevo venduto quadri a Parigi, forse due mi sembra, ma li comunque conobbi Paul Bianchini che mi invitò a ripetere la stessa mostra a New York. Partii dunque per New York, in nave. Sei giorni di viaggio e col rischio di non arrivare. A metà viaggio, infatti, arrivò la notizia che Kennedy aveva intimato le forze russe al ritiro da Cuba, il rischio era quello di una guerra atomica. In quel momento proprio in mezzo al mare pensai “speriamo non scoppi la guerra propio adesso”! Alla fine però arrivò a New York e li cominciò il vero cambiamento… Arrivai a New York all’alba, quando era immersa nella nebbia. Sembrava una specie di sogno. In quel periodo rimasi molto impressionato da alcuni cartelli, con scritte tipo “don’t walk”, le luci che si accendevano e spegnevano, dai cantieri per la costruzione di nuovi grattacieli. Tutto andava molto veloce e io cominciai a fare una serie di quadri ispirati proprio a questo dinamismo newyorkese, quadri con luci, con frecce che indicavano la direzione da prendere. Li ho conosciuto Andy Warhol, il direttore del Metropolitan Museum, la fotografa Diane Arbus, ho conosciuto i protagonisti della Pop Art che stava emergendo. Questo è stato il primo viaggio a New York, dove sono rimasto fino al ’68, poi sono tornato in Italia per dieci anni. Dopo l’esperienza americana avevo cambiato completamente il mio modo di pensare. Non dipingevo più nel modo astratto tradizionale. Avevo un’altra percezione anche del tempo. Una posizione bilaterale tra la pittura e la ricerca del tempo, senza la preoccupazione di quanto duri l’opera. Il tempo soggettivo è misurato dalla durata della nostra vita, mentre il tempo oggettivo è infinito. Dopo un periodo di dieci anni trascorso in Italia sul finire degli anni ’70, lei torna nuovamente a New York ed è in questo momento che avviene la vera trasformazione in artista “di strada” Sono tornato a New York per presentare “l’arte indossabile”. Era quindi evidente che l’arte per me non era più un quadro, ma addirittura qualcosa da indossare. Il progetto era stato già presentato a Milano per Fiorucci, che all’epoca era veramente all’avanguardia e rappresentava il punto di rottura con la tradizione. Io inoltre stavo sperimentando nuove tecniche artistiche. Tornato a New York ho cominciato a considerare questa città come un grande labirinto, ho chiamato questo nuovo modo di fare arte “mitologia urbana”, la mitologia greca veniva così inserita in un contesto urbano, dentro la città moderna. Ho cominciato ad introdurre nelle mie “incursioni” la figura del Minotauro che rappresenta l’aggressione e anche la parte erotica e di Icaro che rappresenta il sogno, la fuga. Poi c’è stato l’incontro con gli altri Street Artist e con Keith Haring. Come è avvenuto? Mi sono trovato coinvolto con un gruppo di Street Artist. Dalla comunicazione reciproca è nata una esperienza comune, tuttavia non c’era una corrente individuabile con elementi identificabili, ognuno realizzava la sua arte pensando con la propria testa con l’intento di trasmettere determinati messaggi. Pur facendo parte del movimento “Street art” ogni individuo era completamente indipendente. Keith Haring, per esempio, cercava di parlare al pubblico attraverso dei disegni fatti nella metropolitana, talmente semplici che potevano essere lettie osservati rapidamente durante le soste nelle stazioni. Io fotografavo questi disegni sulle pubblicità scadute fatte con il gessetto e seguivo lo sviluppo di questo linguaggio figurato, di settimana in settimana, ma soprattutto i suoi messaggi sociopolitici. Haring conosceva a sua volta le mie sculture volanti di Icaro che io attaccavo alle “Fire escape”, alle scale antincendio. Si vedevano dalla strada queste silhouette del pattinatore nero con la vela colorata. La gente le fotografava e Haring mi raccontò scene a cui lui stesso aveva assistito in cui la polizia tentava di tirare via queste sagomeperché ritenute pericolose, ma di fatto non lo erano. Questo pattinatore volanteè entrato poi anche nei personaggi di Haring e quando ci siamo conosciuti lui mi dedicato un catalogo intitolato FOR PAOLO, appunto con l’uomo volante. Anche nell’ultimo grande pannello che ha realizzato a Pisa che si chiama “Todo mondo” c’è il mio personaggio dell’uomo volante, si trova sulla parte sinistra dell’opera. La sua arte, come pure la Street Art, sottende quindi un messaggio politico e sociale. Ci sono differenze con il movimento attuale? Assolutamente, il messaggio è fondamentale e l'artista aveva il suo modo di trasmetterlo. Jenny Holzer scriveva “questa è un’arte che si suppone non debba esistere. E’ un’arte messa in posti dove tutti possano vederla. E’ un’arte che tratta di problemi seri. E’ un’arte talmente bella per dimostrare quanto le cose potrebbero essere meravigliose”. Solo queste poche parole spiegano il concetto di Steet Art che purtroppo oggi è stato travisato e mal interpretato in questo passaggio da New York all’Italia, in un modo che si avvicina molto più alla decorazione. La vera Street Art sottende appunto un messaggio politico, sociale. Basti pensare ad esempio a Ken Hiratsuka che attualmente sta realizzando un monumento celebrativo in Giappone, dedicato a dei pescatori che rimasero uccisi durante lo sgancio della bomba su Hiroshima. In porto è tornata questa barca con i pescatori tutti morti. Una denuncia, un memento per l’umanità di quello che potrebbe succedere se scoppiasse una guerra atomica. Nell’82 io ad esempio ho incendiato la silhouette di una famiglia (babbo, mamma e figli a grandezza naturale) davanti al Palazzo dell’Onu, sempre per celebrare l’anniversario della bomba su Hiroshima. Per due giorni sono andato davanti alle Nazioni Unite senza incendiare l’opera, perché ero tenuto sotto controllo. Poi la terza volta sono andato, era presente la televisore italiana e una giornalista, fotografa del 'Village Voice'. Ho avvertito “arrivo alle sette in punto accendo e scappo”. Invece di utilizzare delle corde in fibra di vetro, che si imbevono con del keronsene, utilizzai una mistura di acetone ed alcool, perché brucia immediatamente e dura molto meno, quindi il tutto è durato circa un minuto e mezzo non di più. Quello che voglio dire con questi esempi è che un’arte senza messaggio personalmente la trovo quasi inutile, rasenta la decorazione, l’artigianato. Oggi la street art non è portatrice di un messaggio, si ferma all’esecuzione manuale. Voglio portare anche altri esempi significativi per far comprendere questo concetto. Uno è quello di Barbara Kruger, di cui espongo una foto in questa mostra. La foto rappresenta uomini in giacca e cravatta, al centro c’è un altro uomo, un amico che viene preso a scapaccioni e sopra è impressa una scritta di Jenny Holzer che recita “L’uomo inventa strani riturali per avere la scusa di toccare la pelle di un altro uomo”. E poi ancora David Finn che negli anni 80 costruiva dei fantocci con i sacchetti di spazzatura neri, a grandezza naturale, per poi posizionarli in luoghi specifici, nei parchi per rappresentare i barboni che non avevano posti dove dormire, sugli alberi come fossero uomini volanti, oppure incatenati lungo una rete metallica sulla strada che unisce Bowery a Broadway, che rappresentavano le fucilazioni in Guatemala di quel periodo. Insomma i nostri messaggi sono sempre stati soprattutto politici. Un’arte che in qualche modo cercava di rompere le dinamiche della quotidianità? Esattamente. La routine quotidiana veniva interrotta da questa possibilità di imbattersi in azioni “straordinarie” come un uomo con le ali sui pattini che sfrecciava in mezzo alle macchine facendo qualche volta “incazzare” i tassinari, che infatti mi odiavano. Questa visione inaspettata e scioccante, rimaneva impressa nella memoria perché, anche se per pochi minuti, interrompeva appunto le dinamiche quotidiane. Ancora credo in questa possibilità di inventare delle cose che possano scuotere gli altri dal torpore. E’ questa la molla che mi spinge ancora a portare avanti un’arte di questo genere. L’arte di strada così intensa, con la sua portata di “senso”, di messaggi in qualche modo rivoluzionari è anche un modo per sfidare le logiche commerciali del sistema dell’arte? Non c’è dubbio. E’ una reazione ai “mercanti” che hanno il potere di muovere le cose. La Street art ha rappresentato una fuga da questa logica, ovvero quella del mercante, della galleria che ti impone un certo prodotto solo per venderlo. Si deve essere liberi. I primi writer hanno dato l’esempio lasciando i loro ghetti del Bronx, del Queens. Dipingevano sui vagoni del treno, che erano bellissimi, colorati. In loro in realtà non c’era un vero e propio messaggio, c’era l’intenzione di lasciare il ghetto e andare a “rompere le scatole”, invadere gli spazi più borghesi, era una specie di élite, di nicchia, si riconoscevano tra di loro, potevano decifrare la “tag” lasciata e capire di chi fosse. Questo graffitismo in realtà non ha però diffuso particolari messaggi. Quindi vuole dire che la street art rispetto al graffittismo offre un messaggio più ampio? Questa è la cosa fondamentale solo che non è stata capita fino in fondo. Parliamo della sua passione per il volo Il volo si rifà al concetto di mitologia e al concetto di desiderio. Il desiderio di fuggire da qualcosa che ti tiene prigioniero. Il volo, come la mitologia, diventa una sorta di realtà parallela che avvicina ai sogni, ma mentre i sogni non si possono controllare, la realtà della mitologia è un sogno desiderato che diventa realtà. Poi ci sono i suoi animali metallici, perlopiù rettili, reali e fantasiosi allo stesso tempo, che incarnano una sorta di forza primordiale Ma diciamo che questi animali sono sicuramente simbolici. I rettili incarnano un passaggio, dall’acqua all’aria, simbolo di una trasformazione e di una evoluzione. Questi rettili meccanici sono anche una specie di nuova generazione che compete con le macchine. In tutta questa ricerca lei tuttavia non ha mai abbandonato completamente la pittura La pittura è come una specie di “orto” personale dove rifugiarsi, una sorta di “playground” molto intimo. La pittura fa parte di quell’angolo dove mi piace rifugiarmi, nel mio studio mi piace giocare con i colori, come un bambino con i suoi giocattoli. Progetti futuri... in Italia, nel Mondo? In Giappone. Intanto spero di essere stato utile a chiarire cosa sia la Street Art rispetto ad altri movimenti, che non condanno sia chiaro. Io condanno solo chi adopera l’arte per scopi commerciali. ...